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IL SENSO DELLA FINITEZZA. LA LEZIONE DI ALESSANDRA - Indicatore Mirandolese

IL SENSO DELLA FINITEZZA. LA LEZIONE DI ALESSANDRA

“Una persona, di quelle che lasciano traccia con nettezza e acume” il ricordo di Mariapaola Bergomi, presidente del Memoria Festival

“Ci ha lasciati nelle scorse settimane Alessandra Pederzoli, mirandolese di nascita e stimata professionista oltre che moglie, madre, sorella e amica. Nella sua ultima apparizione pubblica a Mirandola – ricorda Mariapaola Bergomi, presidente del Consorzio Memoria Festival – Alessandra ha presentato il suo libro “Al volante della mia vita” e ha concluso un’intensa serata cantando con i suoi amati colleghi del coro gospel. Quella serata è stata la prima e unica occasione in cui ho avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo Alessandra e ne sono rimasta colpita. Tutti facciamo esperienza di quegli incontri in cui una persona non può lasciarci indifferenti per l’intensità dello sguardo o la profondità del pensiero: Alessandra Pederzoli era questo, un essere umano di quelli che lasciano una traccia con nettezza e acume; una persona, insomma, il cui giudizio così nitido su sé stessa e la sua vicenda personale è in grado di scuotere le certezze del suo interlocutore. In un certo senso una pensatrice socratica, un’eroina che oscilla tra la gloria e la sventura, tra il bene e il male radicali, ma anche che tesse la tela paziente dell’analisi della sua malattia.

Alla fine della sua arringa difensiva in tribunale, Socrate si congedò dicendo a giudici e accusatori che solo Dio conosce quale sia la sorte migliore per l’uomo: continuare a vivere, ciò che toccò agli ateniesi che lo ascoltavano, o morire, ciò che toccò in sorte a lui con la condanna.

Il Socrate dell’Apologia è un filosofo morente eroico, ma anche consapevole della finitezza dell’essere umano, cui guarda con indomito coraggio ma anche stupore e meraviglia. Proprio il concetto di “finitezza” e caducità dell’uomo è ciò che tutti si trovano – più o meno consapevolmente – ad elaborare di fronte a una sentenza di morte come quella della malattia terminale. La risposta di ciascuno è diversa, quella di Alessandra è stata una risposta che Socrate avrebbe approvato, cioè riaffermare una necessità che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi: il desiderio di conoscenza e la progressione della nostra ragione. Negli ultimi quindici anni della sua vita Alessandra non ha solo lavorato: ha continuato a studiare, ha insegnato come docente all’Università, ha offerto il suo aiuto come volontaria, ha fatto politica accanto al marito Giancarlo ed è anche diventata madre.

La malattia e la sofferenza, che nel mondo contemporaneo tentiamo in ogni modo di esorcizzare, riemergono inevitabilmente quando il nostro corpo riafferma la sua caducità e finitezza e si scontra con le aspirazioni di immortalità della nostra coscienza. Di nuovo, ogni individuo fa esperienza di una diversa reazione di fronte alla lucida consapevolezza che il suo tempo sta per scadere o scadrà. Rendere significativo il tempo che abbiamo a disposizione: è questa forse la lezione più importante che Alessandra ha voluto lasciarci, senza fermarsi alla retorica della “lotta contro il cancro” ma mostrando piuttosto come la malattia significhi anche evoluzione e crescita di sé.

È da poco uscito per Mondadori l’ultimo libro-testamento di Michela Murgia, “Tre ciotole”; chi leggerà il romanzo ci troverà la scrittura brillante della Murgia di sempre, ma anche qualcosa di profondamente diverso: la trasposizione letteraria della sua malattia terminale. In questi mesi Michela Murgia sta preparando il suo addio al mondo offrendo una visione decisamente illuminata del tumore, come un’evoluzione del nostro stesso corpo. Tutti abbiamo bisogno di riti di passaggio: come disse Alessandra in uno dei suoi ultimi video social, anche per essere tristi occorre trovare il tempo e il coraggio.”