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IL MITICO 1968 DEI MIRANDOLESI - Indicatore Mirandolese

IL MITICO 1968 DEI MIRANDOLESI

Intervista a Giuliano Albarani, presidente del Consorzio Memoria Festival, sul mitico 1968 dei modenesi, a mezzo secolo di distanza da una stagione di grandi speranze.

Albarani, il Sessantotto fu un momento magico, un periodo che ha avviato una nuova epoca, una rivoluzione mancata o cos’altro?

 «Il ‘68 fu tutto questo e anche altro, e lo dico non per fornire una risposta eclettica e in qualche modo elusiva, ma perché di fatto quando si parla del ‘68 bisognerebbe declinare questo anno, questo numero, al plurale, perché un conto fu il ‘68 negli Stati Uniti, con la sua forte connotazione politico-civile e antimilitarista, un conto fu il ‘68 in Europa, in particolare nei grandi Paesi dell’Europa occidentale, un conto evidentemente fu il ‘68 in altri contesti molto più problematici e ingabbiati, come quelli dell’Europa orientale o dei Paesi che allora si definivano del Terzo mondo, basta pensare al caso del Messico. Certo se dovessi privilegiare una definizione direi che comunque fu un anno mirabile, perché come nessun anno in precedenza della storia moderna e contemporanea e forse solo sulla falsariga del 1848, il 1968 è uno di quegli anni, rari, in cui vengono a precipitazione e a condensazione tutta una serie di tendenze e processi che si sono andati accumulando nei decenni precedenti. D’altra parte la spiegazione della particolare densità di quell’anno è forse meno complessa di quanto si possa immaginare, perché non dobbiamo dimenticare che il decennio dei ‘60 è il periodo in cui il mito della comunicazione globale e della visibilità di tutta l’umanità a se stessa diventa qualcosa di concreto e quindi realmente le proteste dei cecoslovacchi piuttosto che le inquietudini dei giovani francesi diventano fenomeni “della porta accanto” e non qualcosa di lontano e indecifrabile».

E in provincia di Modena? Quali riflessi ci furono del maggio francese e del vento di cambiamento che soffiò nelle grandi città del mondo e italiane?

 «Il ‘68 in provincia di Modena fu rappresentativo di un aspetto poco considerato sia negli studi sia nelle memorie, vale a dire le mobilitazioni di natura periferica, lontano dei grandi centri metropolitani e universitari, in cui molto spesso gli echi delle proteste più importanti venivano rielaborati e interpretati in chiave più pragmatica. Ci fu anche a Modena un fervore di tipo intellettuale e artistico di assoluto rilievo, ma il dato più importante, se vogliamo distintivo, fu la centralità che ebbe il mondo scolastico, piuttosto che quello universitario, e all’interno del mondo scolastico il segmento dell’istruzione tecnica e professionale. La saldatura che si andò poi realizzando in molti Paesi europei con le mobilitazioni dei lavoratori risultò in qualche modo facilitata, a Modena, dal fatto che il problema degli sbocchi professionali della scuola, della qualità del lavoro, della conciliazione fra tempi di studio e formazione da una parte e tempi di lavoro dall’altra, tutta una serie di questioni simili era stata preventivamente metabolizzata dagli studenti medi. Se vogliamo, a Modena come in altre realtà decentrate dell’Emilia-Romagna, quegli anni risultano più significativi, con il senno di poi, per una messa in discussione di alcune criticità dello sviluppo figlio del cosiddetto boom economico che non perché ci sia stata, per intenderci, l’immaginazione al potere. Un altro aspetto peculiare di Modena e di realtà simili è poi il più contenuto livello di conflittualità della protesta studentesca con le istituzioni e le forze tradizionali della sinistra. Non si può parlare di osmosi, ma sicuramente di un dialogo che altrove non fu nemmeno avviato».

«Programmazione», «decentramento», «autonomie», «comprensori», «villaggi industriali». Altroché «fantasia al potere», verrebbe da dire, rileggendo gli atti prodotti dalle forze che amministravano questa provincia in quegli anni… Come visse il Sessantotto il Pci, la principale forza politica di riferimento dei modenesi?»

«Naturalmente non mancarono rigidità e anche ottusità nella decifrazione del fenomeno studentesco, che a Modena prese il via sostanzialmente nella primavera del ‘68 ed ebbe forse un impatto più importante nell’anno “scolastico” successivo. L’amministrazione guidata da Rubes Triva, tuttavia, si contraddistinse per numerosi tentativi di ascolto e di confronto con le rappresentanze del movimento, fino ad accoglierle anche nei luoghi istituzionali, come il Consiglio comunale; più in generale il partito comunista, se si eccettuano alcune minoranze, non venne percepito, a differenza di quanto accadde altrove, come il “nemico” per eccellenza, anche grazie alla contaminazione di esperienze e in alcuni casi di percorsi biografici che c’era fra soggetti attivi del movimento e militanti della federazione dei giovani comunisti».

E la chiesa locale? Come si pose di fronte al Sessantotto e ai grandi temi che toccavano i fondamenti diffusi della religiosità e della morale?

«Non si può negare che, come altre istituzioni, la Chiesa organizzata ebbe difficoltà ad accogliere la valenza partecipativa e virtuosamente innovativa del movimento, finendo per estrapolare solo gli aspetti deteriori, o almeno considerati tali, sul piano della morale e dei costumi (basta pensare al tema della sessualità). Bisogna però ricordare che il ‘68 fu uno straordinario momento di impegno e di discussione all’interno della Chiesa-comunità, sia perché venivano a fermentazione le suggestioni del Concilio Vaticano II, sia perché le istanze antiautoritarie che furono caratteristiche in generale di quella stagione storica trovavano un terreno fertile nei gruppi autorganizzati di cattolici che mettevano in discussione tradizione e gerarchia, sia perché, nel mondo cattolico come altrove, si andava affermando un principio di laicità che metteva al centro dell’esperienza religiosa e cristiana il soggetto, con la sua coscienza e la sua autonomia di giudizio e critica (ad esempio sul tema della guerra, o nelle scelte politiche)».
«Io decreto lo stato di felicità permanente» era uno degli slogan in voga in quegli anni. Lei che è un insegnante, quali differenze intravede tra gli studenti di oggi e quelli di mezzo secolo fa? Quali continuità? Esistono ancora ragazzi che si dichiarano «permanentemente felici»?

«C’è un dato di partenza inoppugnabile, che va considerato se si vogliono mettere a confronto i giovani degli anni ‘60 con gli studenti di oggi. Quella generazione vantava, rispetto ai padri, un surplus di esperienze e conoscenze, tratte dei libri ma non solo, che i ragazzi di oggi difficilmente possiedono. Era la generazione che poteva capitalizzare l’urbanizzazione, l’istruzione diffusa, il benessere di massa. Oggi anche l’innovazione tecnologica e la società digitale, che potevano sembrare in origine fattori competitivi e vincenti per le generazioni emergenti, sono diventati patrimonio comune, e perciò “neutralizzato”, di padri e figli.

Sarebbe facile e forse banale, dire che oggi l’idea di una felicità permanente appare quasi provocatoria, perché la nozione di felicità è molto legata al carpe diem, all’istantaneità, all’ebrezza momentanea. Io credo però che la nostra grammatica della felicità sia ancora molto condizionata dalla nozione di felicità che è stata prodotta dal ‘68, a partire dal fatto che questa felicità fa capo all’individuo, alla sua realizzazione come soggetto irripetibile e incomparabile gli altri. C’è però una differenza fondamentale, che determina anche, per dirla in modo semplicistico, la sfasatura fra l’ottimismo velleitario e utopistico di quegli anni e la cupezza, anche giovanile, degli anni correnti. Oggi, per motivi che sarebbe difficile e forse impossibile sintetizzare, la ricerca della felicità appare una questione privata, allora questa ricerca corrispondeva a un impegno collettivo, che dava forza e speranza».

 Qualcuno sostiene che l’esito del Sessantotto fu, paradossalmente, proprio il trionfo della società individualistica e dei consumi che il movimento studentesco contestava. È anche la sua opinione? 

«Il ‘68, di per sé, soprattutto in Europa, sancisce il trionfo dell’individuo, non dell’individualismo. Lo spauracchio dei giovani che si mobilitano, certo più di loro che non degli operai, è l’uomo a una dimensione, l’uomo massificato e sottoposto al conformismo e allo strisciante autoritarismo della crescita, dell’arricchimento, del consumismo. A questo viene contrapposto l’individuo sovrano, artefice delle proprie scelte e del proprio percorso di vita. Bisogna però essere realisti e comprendere che, al netto di alcune esperienze molto radicali, gli strumenti con cui i giovani di quella generazione concretizzarono poi la loro aspirazione libertaria e la loro rivendicazione di una piena soggettività furono quelli messi a disposizione dal vituperato capitalismo, dai jeans al rock. Finita la stagione dell’impegno collettivo rimaneva l’idea di un incondizionato diritto alla propria felicità potenzialmente complice dell’egoismo e dell’arrivismo».

A distanza di 50 anni, cosa rimane di quell’anno spartiacque? Cosa vale la pena ricordare e cosa, invece, è meglio dimenticare?

«Da ricordare, sicuramente, il fermento anticolonialista e antimperialista che animò i movimenti sia nei Paesi dominanti sia, quando possibile, nei Paesi dominati. Da questo punto di vista, seppure con esiti spesso travagliati, il ‘68 fu l’inizio della fine del neocolonialismo e del progetto di “restaurazione”, da parte di Usa e Urss, delle logiche imperiali proprie delle potenze tradizionali europee fino alla seconda guerra mondiale. E da ricordare è anche, forse soprattutto, il significato che il principio di autodeterminazione individuale assunse nel vissuto concreto di milioni di donne: il femminismo, la cultura del genere, ma anche più concretamente i difficili e contrastati movimenti per i diritti delle donne nei Paesi in via di sviluppo, hanno nel ‘68 il loro momento generativo. Da dimenticare, direi, i tentativi di “rifare” il ‘68, o di applicare le parole d’ordine di quella stagione, in tempi successivi. Il “sessantottismo” ha giustificato il peggio, dal sindacalismo corporativo e irresponsabile al “vietato vietare” delle campagne monopoliste della Fininvest. Non so se l’ambizione ciclica di replicare la storia dei “formidabili anni” sia stata più tragica o farsesca, ma dei danni, anche solo in Italia, sicuramente ne ha fatti parecchi».

F.M.

 

E A MIRANDOLA INTANTO…

Nel 1968 in Comune a Mirandola le parole d’ordine sono «programmazione», «comprensorio» e «decentramento», termini-chiave di un protagonismo municipale sempre più avanzato, che accompagna uno sviluppo economico impetuoso ma che risulta ancora frenato dai lacci di uno Stato accentratore. Anche per Mirandola sono gli anni del “boom” e il Comune cerca gli strumenti più adatti per aiutare l’economia a crescere, nel delicato passaggio dalla società contadina a quella industriale, per lasciare alle spalle gli «anni certamente non fruttuosi dei podestà e dei commissari prefettizi», per dirla con le parole del sindaco Celso Gherardi. Vicesindaco in quegli anni è Verter Taddei. Nella Giunta eletta nel 1964 siedono anche gli assessori Francesco Neri, Mario Girotti, Euro Alberti, Quinto Cremaschi e Gino Paltrinieri (sostituito, in corso di mandato, da Artebano Pozzetti). Questa Amministrazione, a larga maggioranza Pci, potrà vantare l’avvio di progetti che hanno cambiato il volto della città in molti ambiti, sperimentando soluzioni poi riprese anche da realtà vicine. Si va dal settore dell’educazione (con la creazione della scuola materna di viale Gramsci, la colonia diurna “Arlecchino” e la “Mostra del buon giocattolo”) ai servizi per gli anziani (coi primi passi del progetto della casa di riposo), dalla cultura (sviluppo dei servizi bibliotecari e nuova sede per la scuola di musica) allo sport (avvio del polo sportivo-natatorio di via Mazzone). Una visione di lungo periodo, che aveva il «Comprensorio» (cioè gli altri Comuni della futura “Area Nord”) come orizzonte. Sono quelli gli anni del metanodotto della Bassa, dell’azienda acqua e gas (“Amag”, poi “Aimag”), anche del tentativo di una pianificazione sovracomunale delle aree industriali; si parla anche già di Cispadana. Tra i problemi più urgenti che la Giunta si trova ad affrontare c’è quello della casa. L’Amministrazione comunale punta il dito contro lo Stato e gli enti preposti alla costruzione di abitazioni per i lavoratori, come la Gescal e gli istituti autonomi per le case popolari. Tra il 1950 e il 1970 il capoluogo è passato da 5.000 a 12.000 abitanti, ma le case costruite dagli enti statali nello stesso periodo sono state appena 207, contro le 463 realizzate con il contributo del Comune e le 1.293 del privato. Intorno a quel fatidico anno 1968 viene anche installato il semaforo in fondo alla piazza, parte la raccolta dei rifiuti «con sacchi in politene a perdere» (al posto dei malsani bidoni), si porta la luce elettrica a molte case (ma nel 1970 ne saranno ancora prive 62). Tra gli eventi da ricordare, quell’anno, ci sono l’apertura della nuova sede della pretura e degli uffici comunali (in via Battisti) e del ristorante hotel Pico sulla Statale 12. Vengono progettate nuove fognature e l’Amministrazione comunale scende in campo al fianco dei lavoratori impegnati in vertenze sindacali, come quella del 2 dicembre 1968 sulla situazione degli stabilimenti dello zucchero. Sono anni di grandi speranze e di obiettivi ambiziosi. Spiega il sindaco, nella relazione che accompagna il bilancio di previsione di quell’anno, che «la programmazione è il terreno dell’incontro di tutte le forze politiche e sociali disposte a battersi per la ripresa economica in atto», in chiave antimonopolistica. Gli obiettivi sono: «piena occupazione di tutte le forze di lavoro disponibili», «distribuzione del reddito prodotto che vada sempre più, in termini assoluti, alle forze di lavoro», «espansione del processo economico e della società civile», «riforma sociale e tecnica dell’agricoltura ed estensione della capacità e della forza direzionale del potere politico» nelle infrastrutture, negli orientamenti degli investimenti e del credito, nella politica degli investimenti produttivi. A questo proposito è da segnalare che dopo la creazione del primo villaggio industriale, nel 1962-63, il Comune risponde alle nuove richieste delle imprese con altri 262 mila metri quadri per nuove aree nel 1968: in viale Gramsci (nei pressi della Mon Jardin), di fronte allo Zuccherificio (ex fondo “Iole”) e nella zona sud. È il definitivo decollo dell’industria mirandolese.

F.M.