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I QUATTRO RANARI DELLA FONDERIA - Indicatore Mirandolese

I QUATTRO RANARI DELLA FONDERIA

Intorno al 1950,la Fonderia Ghisa di Mirandola aveva bisogno di effettuare cinque assunzioni. Così mia madre, venuta a sapere la cosa, disse a mio padre di andare dal parroco, spiegare la nostra situazione familiare e chiedergli di mettere una buona parola per una sua assunzione. «Me? Ca vaga dal pret? A preferis murir». («Io? Che vada dal prete? Preferisco morire»). Sembrava proprio una di quelle pellicole di Don Camillo, con mio padre nei panni del “compagno” Peppone.

A quel punto mia madre capì che non si sarebbe piegato e così andò lei in parrocchia, spiegando la nostra situazione. Così mio padre fu il primo della nostra famiglia ad essere assunto in Fonderia che all’epoca era in via Verdi, a 30 metri dalla chiesa del Gesù. Il secondo ad entrare fu mio fratello Franco, seguito da me e infine da Guglielmo. Così nel 1972 eravamo tutti e quattro dipendenti della Fonderia.

I dirigenti, con molta intelligenza, sapendo che in quell’ambiente di lavoro c’erano polvere, gas, fumo e d’estate un caldo infernale, aveva creato una mensa che sfornava pasti per 400/500 lavoratori, ma anche per la squadra dei ciclisti, dei pescatori, del calcio, per le diverse gite sociali e feste familiari. Eravamo diventati insomma “la grande famiglia” della Fonderia.

Una mattina ci troviamo in mensa io i miei fratelli Franco e Guglielmo e Luciano Calzolari, detto “Al Negus”. «Ian dit che ad longh a la strada tra Quarantul e Al Gavel a ghe na canaleta pina ad rani». («Hanno detto che sulla strada tra Quarantoli e Gavello c’è un canale pieno di rane») dice Guglielmo. «Gam dem inco a ciaparan, a li magnem friti sabat». («Andiamo oggi a prenderle e le mangiamo fritte sabato») aggiunge Luciano.

Così decidiamo di trovarci il pomeriggio alle 14. Partiamo all’orario stabilito e, arrivati sul posto, ci infiliamo gli stivali, legandoci al fianco il cesto metallico con chiusura a molle. Franco e Guglielmo si allontanano di circa 200 metri ed entrano in acqua. Entro anch’io e poi aiuto Luciano, robusto e poco agile.

L’acqua è all’altezza giusta, circa una spanna, con cinque, dieci centimetri di fango. Cominciamo a catturare le rane con le mani, di cui la “canaletta” è piena. In poco tempo ne prendiamo, anzi mi sono sbagliato, ne prendo un mezzo cesto. Luciano, dietro di me, si trova l’acqua intorpidita e non riesce a prenderne neanche una.

Ad un certo punto noto sul fondo un pozzetto e lo salto. Proseguo per qualche metro, poi sento un tonfo. Luciano è caduto nel pozzetto e sono rimaste fuori sono le spalle e la testa. «Tiram su» («Tirami su») grida. Lo guardo e solo con un enorme sforzo riesco a restare serio. Quando allunga le braccia fingo di tirare con tutta la mia forza. «Non ci riesco» gli dico e chiamo Franco e Guglielmo ad aiutarmi. Quando arrivano, stringo loro l’occhio. Capiscono al volo la situazione e mi danno subito man forte nello scherzo. Ridendo cominciano a tirare.

Luciano era molto robusto, sui 100 chili, e i nostri sforzi simulati non riescono ovviamente a smuoverlo. Franco ci guarda perplesso e dice: «Chelu al nas mov brisa. Guglielmo va dal cuntaden e digh cal vegna col trator» («Questo qui non si muove. Guglielmo va dal contadino e digli che venga con il trattore»).

«An far minga i asan e tiram su» («Non fate gli asini e tiratemi su») protesta Luciano sempre più preoccupato. Mi avvicino e gli dico: «Sei incastrato, non ce la facciamo…». Dopo circa dieci minuti arrivano Guglielmo e il contadino con il trattore. Ovviamente il contadino è stato “catechizzato” da Guglielmo e sta al gioco anche lui. Gli lega la cinghia sotto le spalle, la lega al trattore e comincia piano piano a sollevarlo. Appena Luciano è uscito dall’acqua si sente un risucchio e noi scoppiamo tutti a ridere fragorosamente, così anche il contadino si prende la sua parte di somaro.

Al sabato, però, all’ora di cena, Luciano si prende una bella rivincita, mangiandosi, da solo, la metà della rane. A fine cena, satollo e soddisfatto, ci guarda e dice: «a psivuv ciamar a magna ranch al cuntaden» («Potevate invitare a mangiare anche il contadino»).

 

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