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LA GITA A CAPODISTRIA - Indicatore Mirandolese

LA GITA A CAPODISTRIA

Come ho ricordato altre voltela Fonderia Ghisa di Mirandola organizzava gite aziendali all’estero. Una di queste si è svolta a Portorose e Capodistria, nell’allora Jugoslavia. La partenza è alle 6 di mattino, con un centinaio di partecipanti suddivisi in due corriere sulle quali sono stati apposti dei cartelli scherzosi.

Uno dei pullman è infatti riservato ai “Mirandolesi”, l’altro ai contadini, i “vilan”. Arriva il “Bel Bruno” e sta per salire sul pullman dei Mirandolesi, quando l’organizzatore lo prega di salire su quello dei vilan. Risata generale, visto che ci eravamo messi d’accordo per fargli lo scherzo. Lui si arrabbia e inveendo contro tutti sale sulla corriera dei villani.

Finalmente si parte e poco prima di mezzogiorno arriviamo al confine, dove ci viene chiesto dai doganieri quanto denaro abbiamo da denunciare. A quel tempo non si potevano portare più di cento mila lire e cento dollari. Arriva il turno di “Stallon” che dichiara senza esitare di avere con sé solo sei mila e settecento lire. I doganieri, increduli, lo invitano a seguirli in una stanza per un controllo approfondito dal quale emerge in effetti che il denaro posseduto dal mirandolese è proprio quello dichiarato. «Av liva dit (Ve lo avevo detto)» dice loro Stallon. Al che un doganiere gli chiede: «Che ci va a fare in Jugoslavia con una cifra così misera?». «Abbiamo tutto pagato e vedrà che me ne avanzeranno anche» risponde Stallon al perplesso doganiere. Poi si riparte e si arriva a Capodistria, dove ci sistemiamo in albergo e facciamo un breve giro della città. La cena è fissata per le 20 e a quell’ora siamo tutti affamati a tavola. La cena è pagata e le bevande sono escluse. A quei tempi in Fonderia c’era gente che non gradiva assolutamente l’acqua, ma quella sera il vino costa troppo e allora, loro malgrado, più o meno tutti ordinano acqua e Coca cola. Arriva il signor Pacchioni, uno dei soci della Fonderia, e si accorge che non c’è vino sulle tavole, mentre stiamo cenando in un silenzio quasi tombale. «Beh? Che succede ragazzi? Non vi vedo allegri» chiede. In un attimo capisce la situazione e decide di offrire lui il vino a tutti. Ripassa il cameriere e si ferma al tavolo di Stallon, “Fogna”, “Manastra” e Bonfiglio che gli ordinano un «pilon ad negar e un ad bianch». La serata sale subito di tono si ride e si scherza e a mezzanotte comincia lo spettacolo a luci rosse… ma lasciamo perdere che è meglio. Il pomeriggio seguente c’è una festa in piazza a cui assistiamo in parecchi del nostro gruppo. C’è anche Bonfiglio Magri, gran ballerino, che si mette a cantare “Vola colomba”, una canzone dedicata da Nilla Pizzi a Trieste con il testo che allude chiaramente alla condizione della città giuliana ancora sotto occupazione alleata, minacciata delle brame espansionistiche di Tito. Si sfiora insomma l’incidente diplomatico, con la polizia che interviene e inizia a manganellare gli slavi presenti. Noi ci allontaniamo rapidamente e, per fortuna, senza conseguenze. Di sera siamo tutti a tavola  e il signor Ribuoli, nostro segretario, chiede a Spartaco Galavotti, detto “Cè” di raccontare una delle sue tante storie. Il C’è allora comincia raccontando di una delle avventure capitategli quando era in Africa. «Mi facevo sempre da mangiare da solo e allora un bel giorno mi sono stancato e sono andato in una piazza dove ho comperato una moglie. Il padre voleva tre capre e io ne offrivo due e dopo una lunga contrattazione mi ha ceduto la figlia per due capre. Dopo un po’ di tempo la chiamo in cucina e le mostro come fare la sfoglia. Prendo la farina, la dispongo sul tagliere, rompo un uovo e metto il contenuto con la farina, ne rompo un altro e faccio lo stesso. Il terzo uovo però è marcio, così lo butto via e ripeto l’operazione con un quarto e un quinto. Mescolo la sfoglia e al termine taglio quadretti, maltagliati e maccheroni. Mi accerto che mia moglie abbia capito come si fa e soddisfatto esco di casa. Alcuni mesi dopo mi sto facendo la barba e nello specchio osservo mia moglie che sta facendo la sfoglia. Prepara la farina incomincia a mettere le uova, la prima, la seconda, la terza, la butta via e aggiunge la quarta e la quinta. Mi avvicino a lei e le chiedo «Hai sempre fatto così?» «Sempre» mi risponde. Avendo visto che gettavo il terzo uovo perché marcio, l’aveva sempre buttato anche lei pensando che facesse parte della ricetta…E qui esplode la solita risata generale, anche se le storie del C’è erano ben note a noi della fonderia che le conoscevamo a memoria. Una settimana di ferie, specialmente se accompagnata da una gita, vola via in un attimo e quando si arriva a casa, si pensa subito alla prossima…

 

Quirino Mantovani

 

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