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IL SALVATAGGIO DEGLI EBREI NEL MIRANDOLESE - Indicatore Mirandolese

IL SALVATAGGIO DEGLI EBREI NEL MIRANDOLESE

Sta prendendo forma la Carta dei luoghi della seconda guerra mondiale e della Resistenza a Mirandola, promossa dal Comune di Mirandola insieme a Istituto Storico di Modena e Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Di seguito un testo realizzato dalla curatrice, Chiara Lusuardi, sul salvataggio degli ebrei.

Nel dicembre 1942 la comunità ebraica di Modena contava un numero piuttosto limitato di ebrei italiani, 166, a fronte dei quali vi era un numero più elevato (231 nell’agosto-settembre del 1943) di ebrei stranieri immigrati, fuggiti o deportati in Italia. Di questi 231, soltanto 6 si trovavano a Mirandola, mentre gruppi più consistenti erano a Concordia e a San Felice. La loro presenza a Modena, più tardiva rispetto ad altre zone d’Italia, iniziò nel settembre 1941, con una crescita considerevole nell’aprile 1942, a seguito dell’arrivo di 37 ebrei libici arrestati a Bengasi come “stranieri nemici” perché avevano cittadinanza britannica. Nel corso di un anno, il numero degli ebrei anglo-libici in provincia di Modena crebbe fino a 61, quasi tutti nella Bassa. Di questi, 24 erano internati a San Felice, 14 a Cavezzo e 7 a Medolla. La persona internata, sottoposta a un regime di soggiorno obbligato, non poteva lasciare senza apposita autorizzazione il Comune cui era stata assegnata, doveva presentarsi una o due volte al giorno alla locale stazione di polizia o dei carabinieri per dimostrare la propria presenza e le era vietato di uscire di casa nelle ore notturne. Se era priva di mezzi otteneva un sussidio statale che però era appena sufficiente per vivere. Nei confronti degli ebrei si attivò presto una fitta rete di solidarietà che permise di contenere il numero dei deportati a 19 fra gli italiani e a 49 tra gli stranieri, 45 dei quali erano anglo-libici. Questi ultimi furono catturati a San Felice, Cavezzo e Medolla durante un rastrellamento compiuto il 30 novembre 1943, ossia il giorno stesso dell’emanazione dell’ordine di polizia numero 5 con il quale la Repubblica sociale italiana stabiliva l’invio nei campi di concentramento di tutti gli ebrei che si trovavano in Italia. Poiché non rientravano nel programma di “soluzione finale”, essi non furono condotti ad Auschwitz, ma vennero trasportati da Fossoli, il campo di concentramento scelto per la raccolta e lo smistamento dei deportati a livello nazionale, a Bergen Belsen. Ci si potrebbe chiedere come mai gli ebrei di questi tre Comuni non si nascosero o non fuggirono. Innanzitutto, il loro forte isolamento dalla popolazione locale, che temeva di essere contagiata da malattie infettive, rendeva gli internati meno consapevoli dei rischi che stavano correndo. Inoltre, trattandosi di donne, bambini e anziani, era più diffuso il timore dei disagi che la fuga e la vita in clandestinità avrebbero comportato, così come la paura di doversi allontanare dai propri famigliari senza sapere quale destino sarebbe stato loro riservato. Infine, fuggire alla deportazione, anche per chi aveva psicologicamente compiuto tale scelta, era difficile, costoso e comportava gravi rischi. Da Finale Emilia, tutti gli internati, ad eccezione della dottoressa Fryderyke Hubschmann, che riuscì a sopravvivere nel Modenese, si misero in viaggio per la Svizzera, grazie alla complicità di alcuni sacerdoti. Nel Mirandolese, le figure di riferimento dell’azione a favore degli ebrei furono don Dante Sala e Odoardo Focherini a San Martino Spino, coi quali collaborò attivamente una rete di cittadini, tra i quali i coniugi Lidia Caleffi e Silvio Borghi, casaro di Mortizzuolo, e Ariella Benatti. Quest’ultima gestiva un negozio di alimentari e aveva anche l’incarico di predisporre le tessere annonarie del Comune. Per questo motivo, agiva in stretto contatto con funzionari della pubblica amministrazione locale, soprattutto con quelli che gestivano le informazioni anagrafiche e il rilascio della relativa documentazione. Ariella Benatti forniva aiuti alimentari agli ebrei, trasportandoli nel doppio fondo di una carrozzina utilizzata per il trasporto del figlio Giovanni e falsificava i documenti anagrafici per i viaggi clandestini che don Sala e Borghi organizzavano verso la Svizzera. Don Sala e Focherini organizzarono la fuga in Svizzera di molte famiglie ebree passando per Cernobbio, in provincia di Como, dove avevano alcune conoscenze. La loro attività portò alla salvezza più di un centinaio di ebrei. Questa rete di soccorsi fu però indebolita già il 4 dicembre 1943 con l’arresto, a Como, di don Sala, poi si distrusse definitivamente con l’internamento di Focherini in campo di concentramento.

I coniugi Lidia Caleffi e Silvio Borghi nell’autunno del 1943 nascosero sette ebrei nella loro casa di Mortizzuolo e li accompagnarono personalmente al confine con la Svizzera. Toccante è la lettera di due scampati dalla morte, Leone e Raffele Talvi, che scrissero da Zweidlen (Svizzera) alla fine del conflitto: «Carissima famiglia Borghi, non potremo mai dimenticare quei tragici giorni quando ci avete nascosti, ci avete curati come se fossimo vostri figli. Questo non si potrà mai pagare. Avete rischiato la vostra vita per salvare noi ebrei, che eravamo deportati a forza da parte dei barbari fascisti». Dalla zona di Concordia, dove nell’ottobre del 1943 risultavano presenti 27 ebrei internati provenienti da Lubiana, Zagabria, Fiume, Milano e Spalato, furono invece i partigiani a predisporre una via di salvezza nella notte tra il 2 e il 3 novembre 1943, grazie anche alla collaborazione di un funzionario della Questura di Modena, che avvisò tempestivamente dell’imminente rastrellamento. Solo due famiglie riuscirono a raggiungere la Svizzera: quella di Bruno Eremic, un commerciante di Zagabria, con la moglie e la figlia e quella di Paul Ernst, un impiegato originario della stessa città, che fuggì con moglie e figlia e che per avere salva la vita fu costretto a pagare ai contrabbandieri 26 mila lire, quando il salario medio mensile era di 500 lire. La famiglia Mattersdorfer di Karlovac, composta da tre persone, fu invece meno fortunata: fermata il 31 marzo 1944 vicino alla frontiera, nei pressi di Como, venne incarcerata dapprima a Milano, poi fu trasferita a Fossoli e, da lì, ad Auschwitz.

 

LA CARTA DEI LUOGHI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE E DELLA RESISTENZA

Una mappa storica del Comune di Mirandola sulla Resistenza e, più in generale, sui luoghi più significativi del periodo 1943-1945. A realizzare la pubblicazione sono il Comune di Mirandola e l’Istituto Storico di Modena, col patrocinio di Anpi Mirandola-XIV Brigata Garibaldi “Remo”-I Battaglione “Pecorari”. Lo studio storico è stato affidato a Chiara Lusuardi, ricercatrice di storia contemporanea, nell’ambito del Master di secondo livello in Public History dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Nella carta, che verrà presentata a giugno, saranno resi evidenti i luoghi non soltanto emblematici per la loro valenza simbolica e pubblica, ma anche utili per ricostruire il contesto mirandolese di quegli anni: sono compresi, ad esempio, aspetti della vita quotidiana, dei bombardamenti, della dislocazione del potere fascista e dell’occupazione nazista, facendo emergere la complessa e pericolosa vicinanza tra centri di potere e luoghi della clandestinità. Si invitano i cittadini a partecipare direttamente, fornendo materiale, fotografie e informazioni dell’epoca scrivendo a fabio.montella@comune.mirandola.mo.it o telefonando al numero 0535/29519.